sabato 11 marzo 2017

Io, Jane

Secondo classificato - Sezione Racconti
Premio Letterario Internazionale De Leo - Brontë 
Anno 2012

 
"Non darsi modo di star bene,
 senza eccezioni.
Crollare davanti a tutti
 e poi sorridere.
Amare non è un privilegio,
 è solo abilità.
Ricordati. Ricordami.
Tutto questo coraggio non è neve.
Non si scioglie mai, 
neanche se deve .” 



     “Era una figura ambigua quella che i viaggiatori della prima diligenza del giorno diretta a Whitcross si trovarono davanti. Una ragazza - avrebbero detto - all'apparenza molto giovane, magra come poche, vestita di abiti scuri e non molto eleganti, senza nemmeno un baule o qualcosa del genere con sé. Non sembrava una mendicante, ma di certo nemmeno una persona ricca. Aveva pagato come tutti loro la diligenza, quindi pensarono che fosse una sguattera licenziata da una delle brave famiglie della zona, sorpresa con le mani nel sacco a rubare e mandata via così di fretta da non lasciarle neppure il tempo di radunare le proprie cose.
     Era pallida e grigia come la neve di dicembre, aveva segnati sul volto cent'anni di dolore - che nei loro avidi giudizi erano invece cent'anni di vergogna. I suoi occhi non brillavano della vivacità della gioventù, men che meno di quella della vita, ma apparivano velati da una sottilissima patina, opaca e quasi invisibile, che infondeva in lei quella giusta dose di mistero capace di inquietare anche il più impavido dei passeggeri presenti a bordo.
     Che sia uno spirito della notte? - si domandavano, squadrandosi a vicenda. Il gentiluomo che la giovane aveva seduto davanti, un signorotto di mezza età dalle guance piene e violacee, appariva angosciato abbastanza da sudare leggermente lungo le tempie. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era proprio il malocchio di una strega. E la sola signora della carrozza, probabilmente coinvolta dal marito in un viaggio d'affari, appariva infastidita, quasi disgustata, dalla presenza del fantasma a bordo, così spettinato e in disordine. Da come guardava la nostra giovane sfortunata, si sarebbe detto che lei sapeva come tener testa a una maga incantatrice.
     Ma io non ero una maga, lettori. Magari lo fossi stata. Mi sarei sicuramente risparmiata lo sforzo e l'inutile dolore di vivere per un anno accanto a un uomo che ora amavo più di me stessa. Se lo fossi stata, avrei sicuramente letto nei pensieri del signor Rochester e avrei saputo a cosa pensava – a chi pensava e perché - avrei previsto le sue intenzioni e non mi sarei mai, mai... mi sarei senz'altro risparmiata il beneficio di amarlo.
     Il fresco tepore del finestrino mi dava sollievo; sentivo la fronte bruciare per la febbre. Il passare svelto dei filari mi ipnotizzava, ma l'alba non suscitava in me neppure la minima emozione. Pregavo; in silenzio. Pregavo; e piangevo lacrime nascoste. Il signor Rochester era tutto ciò che avevo di più caro, tutto ciò che amavo e io l'avevo lasciato. Cosa ne sarebbe stato di me adesso? Non potevo tornare indietro, non avevo scelta. Non c'era più posto per me a Thornfield.”
     «Signorina Charlotte?» Tabita, nonostante fosse entrata nella stanza il più lentamente possibile e avesse appena parlato, riuscì a farmi trasalire dallo spavento.
     «Perdonatemi, io non... vostro padre domanda di voi».
    «Arrivo subito» risposi. Mio padre domanda di me. Vedete? E voi, signor Héger, quando domanderete finalmente di me? Vi amo, Constantin - scrissi in fondo agli appunti del romanzo a cui stavo lavorando in quel momento. «E la vostra assenza si fa sentire più della presenza di chiunque altro» aggiunsi piano.
     Strappai il foglio e lo guardai incenerirsi nel caminetto. Evitavo di lasciare inutili motivi di discussione in giro per le stanze, la vera prigione era nella mia testa. Mi ero privata del piacere di parlare di voi perfino con Emily, sebbene una sorella riesca sempre e comunque a leggere negli occhi le verità del cuore.
     «Sei così depressa Charlotte, sono preoccupata per te» diceva. «Devi andare avanti, dimentica».
     I grandi saggi e scrittori del passato, per quanto ne abbiano scritto, non ci hanno mai davvero avvertito riguardo i poteri devastanti dell'amore. L'amore implica il cambiamento. Il cambiamento implica una trasformazione dolorosa dalla quale non si può più tornare indietro. È come essere prosciugati di tutto il sangue. È come essere svuotati dei ricordi felici. È come avere sempre fame. Il mio vivere stava in questo: dipendevo interamente da una vostra parola.

     E come potevo dimenticarvi? Se vivevo era perché voi vivevate. Se respiravo era perché anche voi lo stavate facendo da qualche parte. L'attesa sarebbe stata straziante in ogni caso; avrei continuato ad amarvi anche dall'altra parte del mondo. Il mio spirito avrebbe bussato alla finestra del vostro studio ogni sera; vi avrei seguito per le strade di Bruxelles passo, passo. Avrei spiato con tenera invidia il bacio della buonanotte ai vostri figli prima di addormentarsi, perché avevo il vostro viso davanti, continuamente. Le vostre sopracciglia folte, arcuate, così troppo spesso accigliate. Il vostro profilo severo; i vostri capelli neri, nerissimi. Mi guardavate sempre con rimprovero.

      Sapete, dopo la morte della zia, mio padre non è più stato lo stesso. Per tutta la sua vita è stato circondato da donne, ma sembrava che non fosse mai riuscito a liberarsi del fantasma di quelle che se ne erano andate. La mamma. Maria, Beth. E poi zia Lizzie. Tutte quante gli avevano portato via un pezzo di qualcosa. Mi faceva sempre più pena, più di quanto io non provassi per me stessa, dal momento che ero morta da parecchio anch'io, questo lo sapevo. Papà mi faceva pena specialmente nelle giornate invernali, quando la pioggia e la nebbia rendevano tutto così grigio, dall'aria fino alla sua pelle. Ricordavo con piacere invece le luci di Bruxelles, che sembravano un oceano di colori anche nelle più gelide delle serate. Il bagliore dei candelabri accesi, gli abiti eleganti delle mesdames nelle loro carrozze, la giovialità delle allieve della scuola che tiravano un sospiro di sollievo dopo un'intensa giornata di studio. So di aver detto di trovarla noiosa a volte, Bruxelles, ma non era la città a rendermi inquieta.

    Leggevamo molto io e mio padre. Io leggevo per lui e lui mi ascoltava. A volte, si addormentava per dei quarti d'ora infiniti e quelli erano i momenti in cui pensare mi costava di più. Non osavo alzarmi dalla sedia e lasciare la stanza; il caro reverendo Brontë provava già abbastanza difficoltà ad accettare gli anni che avanzavano senza doverlo impermalire ulteriormente. Ho imparato che la malattia può rendere un uomo molto cattivo, a momenti. Così rimanevo lì. La Sacra Bibbia poggiata sulle ginocchia e tanto, troppo silenzio. Per quanto mi sforzassi, finivo sempre per pensare a voi. Era difficile non potersene andare quando il ricordo diventava più vivo, quando la voglia di piangere si faceva così intensa da farmi singhiozzare l'invisibile. Era difficile anche quando il ricordo si faceva più dolce, perché accadeva sempre che qualcosa venisse ad interrompermi, scuotendomi violentemente.

     Ciò che più amavo ricordare era il vostro sorriso - oh, che meraviglioso sorriso avete, se solo poteste rendervene conto ridereste di più. Me ne avete regalato uno, quel pomeriggio di aprile nel vostro studio ed è stato come ricevere il bacio di un dio. Io mi trovavo a Bruxelles già da qualche mese e voi eravate particolarmente in buona quel giorno perché eravate più allegro del solito. E per come siete abituato voi a essere allegro, si poteva dire che si trattasse di un vero miracolo - perdonatemi, non volevo burlarmi di voi, anche se una smorfia mi è appena sfuggita dall'angolo della bocca e le guance sono diventate fiamme infuocate al pensiero delle vostre... particolarità.

     «Ho letto il vostro componimento, Miss Brontë. Se solo le vostre traduzioni fossero buone come le cose che scrivete» avete detto.
    «Se mi è concesso, signore, sarebbe tutto molto più semplice per me se voi mi permetteste di usare il dizionario».
    «Siete a Bruxelles da un tempo ragionevole ormai da non averne più bisogno. Piuttosto, sospetto che vi divertiate a incollerirmi con le vostre traduzioni poco più che sufficienti».
     «Oh no, così non sia, signore. Non potrei mai volere la vostra collera: ne morirei» risposi.
    Mi avete guardata. Vi siete voltato d'improvviso e avete affondato il vostro sguardo indagatore su di me. Io conoscevo bene i vostri occhi; avrei potuto enumerarne le pagliuzze dorate e le sfumature con enorme facilità. Ma credo che per voi quella sia stata la prima volta che mi avete guardata davvero. Nelle altre occasioni mi avevate solo vista, guardata mai.
     «E sia» avete ribattuto. «Usate pure il dizionario, per questa volta. E vedremo... se riuscirete a sorprendermi».
     Afferrai il consistente volume dalle vostre mani e lo strinsi forte al petto. Nella mia sciocca immaginazione ero stata così contenta di aver ricevuto in prestito quel dizionario da voi, da viverlo come se aveste tagliato una ciocca di capelli e me ne aveste fatto dono.
     «Credevo di averlo già fatto, signore, con i miei componimenti» risposi.
     Lo stupore dipinto sul vostro viso mi emozionò. «Bene; allora ridatemelo se ne siete così sicura» e avete porto la mano per riprendervi il libro.
    «Niente affatto» strinsi il dizionario ancora più forte.
    «Non volete ridarmelo?»
    «No, signore».
    «Ma io ne ho bisogno, signorina Brontë».
    «Non vi credo».
    Avete taciuto. Mi avete guardata di nuovo. Avete accantonato i miei scritti "peu correcte" e avete preso a correggere i compiti degli studenti. Non sembravate in vena di rivolgermi nessun'altra parola per quel giorno e a me poteva bastare.
     «Cercherò di fare del mio meglio signore, buonanotte».

     Era quella la felicità? Perché non ricordo di aver provato niente di più squisito. Ingenuamente, pensavo di essere riuscita a spezzare una qual sorta di incantesimo che vi teneva imprigionato nella vostra indifferenza, ma voi non mi avete rivolto la parola per tutta la settimana seguente e vostra moglie mi aveva riservato lo stesso trattamento. Tuttavia, l'attesa aveva aumentato il mio desiderio di rivedervi. Così, non dimenticherò mai il momento in cui vi incontrai di nuovo. Quella sera, il vostro studio era più buio del solito. Non era poi così tardi, perché le lezioni del pomeriggio erano appena terminate e mancava ancora un po' alla campanella della cena. Sulla vostra scrivania però, vi era solo una candela accesa e le tende erano tirate, di modo da non lasciar filtrare nemmeno uno degli ultimi raggi di sole.
     «Ah, siete voi. Venite avanti, signorina Brontë» mi avete detto.
     La vostra voce era distratta e stanca, il vostro sguardo non si era distolto dal compito che avevate per le mani. «Chiudete la porta».
     Obbedii. Mi avvicinai con timore. Sembravate molto nervoso, pronto a sbranarmi da un momento all'altro. Ma io restai in piedi, in silenzio, pronta ad accogliere il vostro attacco.
     «Sedetevi, cosa state aspettando?» avete aggiunto dopo almeno cinque minuti buoni, senza mai guardarmi.
     Obbedii di nuovo.
    «Bene» avete infine concluso, sbattendo forte il pennino sul tavolo e degnandomi finalmente di un po' di attenzione. «Vediamo che cosa siete riuscita a fare. Il vostro lavoro, prego».
     «Come...?» risposi balbettando.
     «Datemi il vostro lavoro, quello che vi ho assegnato la settimana scora» avete ripetuto.
     «Volete correggerlo adesso
   «Perché no? Non vorrete perdervi la mia espressione sorpresa? Sempre se riuscirete a sorprendermi. Restate qui, non ve ne andate. Per favore, s'intende».
     Il mio aspetto era tranquillo, ma dentro di me tutto era in fermento. Avrei potuto reggere il vostro giudizio così, su due piedi? Vi guardavo con insistenza, studiavo il vostro profilo: il vostro naso dalle narici grandi e colleriche, le vostre labbra così ben delineate. La cosa che preferivo di voi erano i segni della vostra pelle. Non erano segni di vecchiaia, sebbene aveste superato l'età della giovinezza da un pezzo. Erano più pieghe di esperienza. Una delle più affascinanti si trovava a metà strada tra le vostre sopracciglia, un solco scavato dalle troppe volte in cui vi siete aggrottato, probabilmente. Ma le più belle in assoluto, erano quelle che partivano dalla base del vostro naso e percorrevano con un non troppo profondo semicerchio i lati della vostra bocca. Ve ne era un'altra, infine, che non compariva quasi mai perché andava di pari passo con il vostro sorriso; quando sorridevate infatti - e parlo di un sorriso vero, una risata piena - compariva una piccola linea verticale subito in prossimità degli angoli della vostra bocca. Si dice che chi ha gli angoli della bocca rivolti all'insù sia una persona positiva ed estroversa; chi li ha rivolti all'ingiù sia invece più timido e insicuro. Così mi sono sempre chiesta che cosa volesse significare il vostro modo di ridere, visto che non appartenete né all'una e né all'altra categoria. Forse quella linea verticale che spezza le vostre labbra ai lati, sta a significare che non siete come tutti gli altri, che anche voi vi lasciate spezzare spesso, vi impedite di essere felice, siete il guardiano della vostra gioia, alla quale rinunciate come se foste stato condannato a essere punito a vita. Ma per che cosa?
      Non ho spostato lo sguardo dalla vostra persona nemmeno per un attimo, così come voi non avete spostato mai lo sguardo verso di me. Poi, a un tratto, il lembo del mio vestito ha sfiorato il vostro ginocchio e siamo rimasti così, vicini ma non abbastanza da toccarsi davvero. Facevo attenzione a non respirare troppo forte, avrei potuto rimanere schiava della vostra ombra per tutta la vita.

     Monsieur Héger, nella lettera che tempo fa avete scritto a me e a Emily, dopo che in fretta e furia lasciammo Bruxelles per la morte della zia, mostravate apprezzamento e... mancanza. Una mancanza che però non ho ritrovato al mio ritorno. Perché d'un tratto siete diventato così freddo? Mi ignoravate, pur cercandomi. Eravate quasi sempre voi il primo a fare un passo, commissionandomi l'una o  l'altra traduzione. Troppo impegnato per parlarmi di persona; troppo poco per lasciarmi andare via. Ditemi come posso dimenticarvi, signor Héger? Come posso dimenticare quella volta?

     Vi siete accanito su di me con una rabbia immotivata, che mi siete sembrato come un vulcano di frustrazione rimasto inesploso per troppo tempo. Avete continuato a infierire, e infierire, fino a che non sono scoppiata in un pianto disperato proprio davanti a voi.
     «E questa la chiamate traduzione? Non vi ho insegnato nulla? Un nomade analfabeta avrebbe saputo fare di meglio. Sono deluso, molto deluso!» avete detto, camminando avanti e indietro nel vostro studio come una bestia infuriata; il mio lavoro tra le mani pronto a essere fatto a brandelli.
     «Mi dispiace! Io... ho cercato di fare del mio meglio. Come sempre!»
    «Non è abbastanza!» avete gridato. «Fare del nostro meglio, a volte non è abbastanza» ripeteste più piano, abbandonandovi a testa bassa, i pugni serrati contro il legno della scrivania. Poi in un balzo, mi avete afferrato per le spalle e mi avete spinta contro il muro. «Non innamoratevi di me, Miss Brontë» avete detto in una supplica. «Non fatelo».
     Vi guardai, sgranando gli occhi, sorpresa.
     «È-troppo-tardi» confessai.
     Allora vi siete calmato. Avete asciugato, rassegnato, le mie lacrime col dorso della mano. Eravate a un palmo dal mio naso, potevo sentire il vostro respiro caldo sulla pelle, il vostro profumo.
     «È tutto così sbagliato, Charlotte. Riuscite a capirlo?»
     «Lo capisco. Ma non posso accettarlo».
    Chiusi gli occhi; aspettavo un vostro bacio. Ma voi avete solamente sigillato le mie labbra con un dito, prima di voltarvi e allontanarvi, senza più dire una parola.
     Vostra moglie era entrata nello studio, allarmata probabilmente dal frastuono. Sophie era con lei. Mi guardò con un'aria così severa che non seppi reggere il confronto. Fuggii; e il vostro sguardo mi seguì. Lo potei sentire anche dandovi le spalle. Poi la porta del vostro studio si chiuse di nuovo. Sophie ne venne esclusa, proprio come me. E io abbandonai lì dentro il mio più grande rimpianto: quello di non avervi baciato almeno una volta e la consapevolezza che, da quel momento, tutto sarebbe cambiato.
     Avevamo perso la nostra occasione.
Da una lettera di C. Héger:
“Miss Brontë, qui a Bruxelles stiamo tutti bene. Vi ringraziamo per la vostra missiva. Continuate a studiare il francese e non fatevi distrarre da altro.
Cordialmente, 
Professor C. Héger.”

     Il giorno della mia seconda partenza lo porterò nel cuore per sempre, come un dipinto nitido e chiaro stampato a fuoco nella memoria. Pioveva molto e faceva freddo. Prima di salire sulla carrozza che mi avrebbe strappato definitivamente da voi, mi voltai a cercare la vostra sagoma alla finestra dello studio: non eravate sceso a salutarmi come avevano fatto gli altri insegnanti, così avevo pensato, avevo sperato, che almeno da lontano io potessi...
     La pioggia batteva sul mio viso, il temporale avanzava. Le vostre tende vennero di colpo tirate e io mi rassegnai al fatto di avervi perso. Ma poi, qualche metro più avanti, al cancello, vi vidi nascosto nell'antro di mattoni rossi che delimita l'ingresso della scuola. Mi avete di nuovo chiuso le labbra con un dito e io, ancora una volta, ho obbedito.
     «Così... addio, signorina Brontë».
     «Non ditelo, voi sapete: mi basterebbe un vostro segno, solo uno, per trasformare questo addio in un arrivederci».
    Avete sorriso, guardando in basso. Mi sembrò di sentir soffocare un signhiozzo. Mi avete preso una mano e ve la siete portata al petto.
    «Ecco, ascoltate» avete detto. «Non chiedetemi altro».
 Da una lettera di C. Brontë 
“Monsieur Héger, signore... so che non ho nessun diritto di dire quello che sto per dire, ma come potete dedicarmi così tanta indifferenza? Pensate che possano bastarmi queste due misere righe? Pensate di potermi liquidare come si liquida un'insulsa amante francese? Che cosa pensate che io sia? Volete forse dirmi che non ha significato nulla quello che c'è stato tra di noi? Ho sentito il vostro cuore battere per me.”
            E ancora.
“È vostra moglie che vi impedisce di scrivermi? Non sarete mai mio. Questo non è sufficiente per lei? Dedicatemi almeno un po' del vostro tempo, signore; fatemi capire che mi pensate almeno la metà di quanto io penso a voi. Perché se un giorno scoprissi che sono scomparsa dalla vostra memoria... se un giorno scoprissi che mi avete dimenticata, per me non avrebbe più senso vivere, lo capite? E allora la morte sarebbe solo una consolazione. Desiderate la mia morte, signore? Io a volte, lo ammetto, sì.”

     «È così folle, Charlotte. Non puoi spedire sul serio una lettera del genere a Monsieur Héger. Ti prenderà per pazza».
    «Non giudicarmi. Tu non c'eri, non puoi capire».
    Emily si era avvicinata a me. Mi aveva accarezzato i capelli e guardata con compassione.
     «Devi dimenticarlo. È stato solo... niente. È stato niente, ecco tutto».
    Scoppiai a piangere.
    «Charlotte, gli uomini sono creature incomprensibili, a volte. Sono impulsivi, seguono il loro istinto animale. Ma Monsieur Héger è sposato».
     «E credi che non lo sappia?» ribattei.
    «Allora che cosa ti aspetti che faccia? Che cosa vuoi da lui?»
    «Vorrei che... io vorrei solo...»
    «Ti rendi conto di quello che gli stai chiedendo, vero?»
   «Tu non avresti dovuto nemmeno leggerla questa lettera» singhiozzai ancora. «Ma in questa casa  avete sempre l'abitudine di apparire alle mie spalle come corvi!»
   «Un giorno capirai da te quanto tutto questo sia sbagliato, Charlotte» e dopo avermi baciata la fronte, Emily si congedò.
Da una lettera di C. Brontë:
"È passato oramai un tempo sensatamente lungo da quell'episodio, ma non sono ancora sicura di poter dire quanto sbagliato sia stato incontrarvi. Ho provato nel tempo a riconquistare la vostra amicizia, mi sono mostrata calma e giudiziosa; ma i vostri silenzi si sono fatti sempre più frequenti. Emily e Anne mi hanno coinvolto in un progetto che sta assorbendo le mie giornate per intero e tutta la mia energia. Ho scritto un libro. Parla di un uomo tormentato che alla fine decide di seguire il suo cuore nonostante le avversità. Abbiamo appuntamento con un editore a Londra la prossima settimana, vorrei tanto che il mio lavoro venisse pubblicato anche se forse non sono mai stata una granché, come più volte avete sostenuto. Sapete, Monsieur Héger, a volte ci sembra di vivere una favola, e come nelle favole, ci si aspetta di avere un finale banale. Felice, ma banale. La vita vera però non è così, non ti deve niente. Non deve impressionarti. Non deve saziarti. Può lasciarti a metà. Può lasciarti a metà anche per sempre. 
Leggetelo. Leggetemi, per favore."
______________________________________________________________

Charlotte Brontë morì il 31 marzo del 1851.
Pochi anni dopo, morì in Belgio anche Monsieur Héger.
La signora Héger decise di chiudere la scuola.
Una delle loro figlie, Victorine, facendo l'inventario dei libri nella biblioteca del padre trovò un volume conservato lontano dagli altri, in un cassetto chiuso a chiave.  Era scritto in inglese e il titolo era Jane Eyre, di un certo Currell Bell. Nell'ultima pagina vi era questa annotazione:
"Très bien, ma chère... très bien"

Nessun commento:

Posta un commento